Continuo le riflessione che ho fatto precedentemente. Secondo me, per uscire bene dall’attuale crisi, bisogna considerare seriamente due premesse. Altrimenti c’è il rischio di perdere tutto quello che abbiamo progettato: la crisi finale dell’ordine capitalistico e i limiti invalicabili della Terra. Naturalmente si tratta di ipotesi, ma credo che siano fondate.
Prima premessa: il sistema del capitale è arrivato, voglio dire che ha raggiunto il suo scopo fondamentale – aumentare l’accumulo privato fino al limite estremo. Thomas Piketty nel suo Il capitale nel XXI secolo fa la seguente costatazione: “I pochi che stanno nel punto più alto tendono ad appropriarsi di una grossa fetta della ricchezza nazionale, a spese della classe medio bassa”. Oggi questa tendenza non è soltanto nazionale ma globale. I dati variano di anno in anno, ma alla fine si riassumono in questo: un gruppo sempre più esiguo possiede e controlla grande parte della ricchezza mondiale.
Ma “arrivato” significa anche ‘fine corsa’, conclusione. L’agonia potrebbe essere lunga, ma il malato è di tipo terminale. Il capitalismo ha raggiunto il suo punto più alto possibile, non ha nient’altro da offrirci, se non gli stessi prodotti – e in maggior quantità – che sono all’origine della crisi. Ha raggiunto i limiti fisici della Terra; l’esaurimento dei beni e servizi naturali è reale al punto che l’ordine del capitale che ha bisogno dei beni della Terra, non riesce più autoriprodursi. Forzando la sua logica interna, può diventare biocida, e, al limite, genocida. Siccome non può più autoriprodursi, si rigira su se stesso accumulando con furia sempre più dissennata attraverso la crisi speculativo-finanziaria. Il motto è ancora quella di sempre, il perverso “greed is good” (L’avidità è buona cosa). L’umanità e la natura vadano a quel paese.
Se vogliamo uscire dalla crisi sulla base di questa logica, stiamo scegliendo la via che porta all’abisso. Entro poco tempo, tutti potremo sperimentare nella carne il senso della metafora di Kierkegaard: un pagliaccio invoca aiuto dagli spettatori perché diano una mano a spegnere il fuoco che già consuma le tende negli ambienti dietro al teatro; tutti ridono e applaudono ma nessuno dà retta al pagliaccio finché il fuoco non ha bruciato il teatro e tutti quelli che ci stanno dentro.
La seconda premessa, quasi sempre assente nei lavori degli analisti economici, è lo stato gravemente malato del pianeta Terra. L’accelerazione produttivistica sta distruggendo, e in fretta, le basi fisicochimiche che sostengono la vita oltre a generare una vasta erosione della biodiversità e l’irrefrenabile riscaldamento globale, i cui gas effetto serra hanno raggiunto attualmente il picco più alto degli ultimi 800.000 anni. Se a partire da adesso non faremo niente, come affermava già nel 2002 la società scientifica nordamericana, già in questo secolo potremo conoscere un improvviso riscaldamento di 4-6 °C. Con questa temperatura, si dice, le forme di vita conosciute non sussisteranno e gran parte dell’umanità corre il grave rischio di sparire.
Come uscire fuori da questo impasse? Può darsi che nessuno possieda le condizioni sufficienti concepire un’alternativa realmente possibile, perché la situazione ormai ha una dimensione che va oltre il Brasile, è globale.
La mia palla di cristallo mi suggerisce tre sentieri:
il primo, davanti alla gravità della crisi, è creare un consenso minimo, che non sia di parte, coinvolgendo partiti, sindacati, imprese, e la intellighenzia nazionale, ONGs e le chiese intorno a un progetto minimo di Brasile fondato su alcuni principi e valori accettati da tutti. (Sarebbe necessario identificarli). Secondo il mio parere la leadership di Lula sarebbe ancora sufficientemente forte per mettersi alla testa di questa proposta. Il governo di Itamar Franco, dopo la crisi di Collor, potrebbe suggerire qualche ispirazione.
Il secondo sarebbe costituire un fronte ampio e robusto di partiti, sindacati e gruppi progressisti per fare fronte a un avanzamento delle forze di destra e alle loro politiche neoliberali, associate al progetto-mondo capeggiato dai paesi centrali. A destra non esiste una preoccupazione sociale consistente, perché essa è interessata alla crescita del PNB che favorisce le classi proprietarie e le banche, lasciando i poveri là dove stanno, in periferia. Di nuovo penso che la figura più adeguata a continuare questo fronte progressista sarebbe Lula. Ma il suo svolgimento dovrebbe essere pluralista e non personalista. La convergenza nella diversità, non annullerebbe le singolarità dei gruppi che possiedono una loro identità e una loro storia. Ma davanti a un rischio globale bisogna relativizzare quanto è proprio in funzione di quello che è comune.
Terzo sentiero. Il PT dovrebbe fare una rigorosa autocritica, ricomporsi internamente, rinforzare i nessi di potere con i movimenti sociali, politicizzare il più rapidamente possibile le basi e presentarsi con una agenda nuova che completerebbe la prima, i cui items di base sarebbero le infrastrutture nella sanità, nell’educazione, i trasporti, dell’urbanizzazione delle favelas e la riforma politica tributaria e agraria.
Ma vedo che il guasto del PT a partire da un pugno di traditori e banditi che hanno fatto vergognare più di 1 milione di iscritti, e hanno svergognato il paese sia davanti alla nazione stessa sia davanti al mondo intero, ti fa diventare fragile fosse persino innocuo questo cammino.
Comunque sia, alla destra dobbiamo opporre il diritto. Non possiamo accettare la rottura del rito democratico. Quanto a noi non ci è permesso di smettere di cercare il meglio per il nostro paese al di là delle differenze e dei contrasti che possano sorgere in avvenire. Il bene comune deve prevalere su qualsiasi altro bene privato.
Traduzione di Romano e Lidia Baraglia